Mediazione: prime considerazioni sui lavori della commissione ADR

27/01/2017
Mediazione: prime considerazioni sui lavori della commissione ADR

La disciplina della mediazione si appresta a cambiare “pelle”. Il lavoro della Commissione Alpa, pur perfettibile, offre interessanti spunti di miglioramento dell’attuale disciplina: la rivisitazione dei casi di obbligatorietà della mediazione, la creazione di forme di coordinamento fra i procedimenti di istruzione preventiva e una maggiore deformalizzazione del procedimento, rappresentano i cardini della possibile riforma del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

Ai cultori della materia appare evidente come la disciplina sulla mediazione civile e commerciale necessiti di una riforma strutturale, peraltro suggerita dalla prossima conclusione del periodo di sperimentazione (art. 5-bis, 4° periodo, del D.Lgs. n. 28/2010), tale da consentire all’istituto di soddisfare realmente la sua naturale vocazione di strumento negoziale utile anche alla deflazione del contenzioso giudiziale.

Pietra angolare di tale valutazione sarà senz’altro rappresentata dal dato empirico, ovverosia dall’individuazione degli ambiti in cui l’attività dei mediatori ha permesso il conseguimento dei migliori successi e degli aspetti che, con maggiore frequenza, hanno ostacolato il raggiungimento delle intese conciliative.

È senz’altro vero che siffatto sindacato non può certo svilupparsi in forma statica, limitandosi, cioè, a constatare il fallimento della mediazione nei settori in cui gli accordi amichevoli sono stati conclusi raramente e decretando, al contrario, il successo del procedimento in quelli che si sono fortemente prestati alla definizione consensuale della controversia.

È chiaro, infatti, che il fallimento o il successo dello strumento di A.D.R. non è necessariamente determinato dall’inadeguatezza o dall’appropriatezza dell’apparato normativo predisposto dal legislatore, ma anche – non di rado – dal contegno adottato dagli abituali frequentatori delle aule giudiziarie, come, ad esempio, banche ed imprese di assicurazione.

Non si dimentichi, al riguardo, che il contenzioso in tema di sinistri stradali, spesso alimentato da contenziosi di dimensioni bagatellari, avrebbe dovuto costituire, quantomeno nelle intenzioni del legislatore, il terreno d’elezione della mediazione civile e commerciale; ciò nonostante, la sistematica defezione del procedimento da parte delle Compagnie assicurative, talvolta non accompagnato da alcuna giustificazione ovvero assistito da motivazioni inconsistenti, ha determinato la debacle della mediazione in subiecta materia, tant’è che il D.L. 21 giugno 2013, n. 69 ha emancipato tale tipologia di cause dall’obbligatorietà della mediazione.

È bene, dunque, che un’auspicabile riforma della normativa in materia di mediazione si preoccupi di isolare gli elementi di pregio dell’attuale disciplina, sopprimendo, di contro, i fattori che, in concreto, impediscono o ostacolano la stipulazione degli accordi amichevoli; al contempo, però, è opportuno che la novella legislativa predisponga strumenti sanzionatori a carico delle componenti del corpo sociale che, tramite atteggiamenti gratuitamente refrattari, non contribuiscono all’implementazione degli obiettivi di pubblico interesse, ma anche di nuove frontiere dell’autonomia privata nella fase patologica dei rapporti giuridici.

Posta tale premessa di carattere metodologico, ci si permette di richiamare l’attenzione sulle problematiche che, nella prassi curiale, hanno assunto il massimo spessore e la maggiore rilevanza pratica e sono stati oggetto dei lavori della Commissione Alpa.

a) Innanzitutto, si ritiene che non siano stati adeguatamente definiti i casi in cui la parte è legittimata a disertare la mediazione.

Il concetto di “giustificati motivi”, impiegato dall’art. 8, D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, è piuttosto generico e, comunque, inidoneo ad individuare con esattezza le ragioni di legittima diserzione: non è agevole stabilire, difatti, se esso abbracci anche le ipotesi in cui la parte, secondo una valutazione ispirata a prudenza e ragionevolezza, reputi di aver interamente ragione e, dunque, di non aver alcun interesse ad addivenire a soluzioni transattive (implicanti, in quanto tali, ai sensi dell’art. 1965 c.c., una qualche rinunzia e/o concessione) ovvero comprenda le sole ipotesi di obiettiva impossibilità a concludere l’accordo amichevole (come, ad esempio, laddove la parte ritenga che il diritto controverso sia indisponibile e, dunque, ogni ipotetica intesa sarebbe affetta da nullità) o di errori nell’instaurazione del procedimento (si pensi all’individuazione di un organismo di conciliazione territorialmente incompetente ovvero nell’elezione di un mediatore che rifiuti di riconoscere la propria incompatibilità a svolgere il suo ufficio).

La prima ipotesi interpretativa, senz’altro ispirata ad una sincera convinzione della bontà dello strumento conciliativo in questione, è stata perorata da taluni Giudici di merito, alla stregua dell’assunto secondo cui ogni procedimento di mediazione è orientato, per sua natura, a favorire la composizione della lite insorta fra soggetti convinti, tutti, della fondatezza delle rispettive pretese e contestazioni e che l’intervento del mediatore è funzionale proprio a consentire alle parti di comprendere la potenziale ragionevolezza delle altrui posizioni ed aspirazioni ovvero ad individuare piattaforme conciliative che prescindano dalla distribuzione del torto e della ragione, ma fondate unicamente su valutazioni di convenienza (Trib. Vasto, ordinanza 23 aprile 2016 e del 6 dicembre 2016).

Tale posizione appare condivisibile, ancorché, nella prassi, rischi di favorire l’adozione di contegni assolutamente ipocriti, che si traducano, ad esempio, nella formulazione, ad opera del litigante, di proposte conciliative non concretamente accoglibili dalla controparte, al solo scopo di dimostrare il suo spirito di collaborazione; una simile evenienza, lungi dal catalizzare il raggiungimento degli accordi amichevoli, tende a compromettere la percezione dei consociati in merito alla serietà ed all’utilità della mediazione e, dunque, a dissuadere l’accesso a tale procedimento, anche se volontario.

Antidoto a tale inconveniente può consistere nell’eliminazione – o, comunque, nella drastica riduzione – dei casi di mediazione obbligatoria ex lege (cioè nelle controversie incidenti sulle materie tipizzate dal legislatore), associata, però, al potenziamento della mediazione delegata dal Giudice, a cui le parti dovrebbero obbligatoriamente accedere, salvo la ricorrenza di gravi ragioni, pena l’irrogazione delle notorie sanzioni processuali (improcedibilità delle domande principali e, secondo taluni, riconvenzionali; desunzione di argomenti di prova ex art. 116, comma 2 , c.p.c.; condanna al pagamento, in favore dell’erario, di una somma corrispondente al valore del contributo unificato).

Con riguardo alla mediazione demandata, che grande interesse ha suscitato nella giurisprudenza in termini, sarebbe opportuno, in una prospettiva di riforma, che la sua disposizione sia subordinata ad una motivazione, magari succinta, in ordine alle ragioni per cui il Giudice reputi conveniente il suo esperimento.

b) In secondo luogo, è emerso, nella pratica forense, che il mediatore, al cospetto di parti che, pur astrattamente disponibili a concessioni o rinunce, non riescono ad individuare un punto di compromesso, è privo, non di rado, di mezzi di persuasione o di suggestione adeguatamente efficaci.

Il più delle volte, infatti, il mediatore non è in grado di comprendere, neppure profondendo il massimo sforzo, di identificare la parte maggiormente esposta al rischio di soccombenza, che, in un’ottica promozionale dell’accordo conciliativo, dovrebbe essere maggiormente stimolata ad una soluzione di compromesso e, più precisamente, a desistere parzialmente dalle proprie posizioni, pur di sottrarsi all’alea del giudizio.

In questo senso, si è proposto di rafforzare i poteri istruttori del mediatore, attribuendo al medesimo la facoltà di assumere sommarie informazioni dai soggetti apprezzati dalle parti come testimoni ovvero facilitando (o razionalizzando) la designazione dell’esperto, già prevista dall’art. 8, comma 4 , D.Lgs. n. 28/2010, il quale, in seno al procedimento di mediazione, è chiamato a svolgere, in buona sostanza, la funzione di C.T.U. (antesignana di tale impostazione: Trib. Roma, sez. XIII, Giudice: Dott. Massimo Moriconi, 16 luglio 2015).

Potrebbe essere interessante, a questo proposito, la creazione di un modello di mediazione nel contesto della quale la nomina dell’esperto non costituisca un elemento eventuale ed occasionale, magari affidato al consenso di tutte le parti coinvolte, bensì una fase necessaria e naturale, che si concluda con la realizzazione, nel contraddittorio fra i consulenti, di un elaborato peritale su cui possa innestarsi, poi, l’attività conciliativa del mediatore.

Si tratterebbe di una sincresi fra la mediazione con nomina dell’esperto e la C.T.P. ex art. 696-bis c.p.c., che permetterebbe, però, di postergare l’attività di conciliazione ad un momento posteriore alla formazione della perizia, con diversi palesi vantaggi: il mediatore, edotto dei profili tecnici della controversia, sarebbe altresì fortemente indotto a prodigarsi per facilitare l’intesa, al fine di conseguire un compenso più sostanzioso.

c) Sempre in questa traiettoria, si è delineata l’idea, specialmente per quanto concerne la riforma della mediazione delegata, di includere il mediatore tra gli Ausiliari del Giudice, affinché il primo possa operare secondo le direttive del secondo, tentando la conciliazione sulla base di criteri predefiniti ed annotando a verbale le ragioni dell’eventuale fallimento della mediazione, affinché di esse possa tenersi conto ai fini del giudizio, quantomeno nella regolazione delle spese processuali.

Ciò comporterebbe sì una significativa compressione dell’autonomia del mediatore, ma, del pari, ne accrescerebbe l’autorevolezza e, quindi, anche la forza persuasiva dei suoi consigli, agli occhi delle parti e dei loro difensori.

d) Da ultimo, la natura squisitamente informale e duttile del procedimento sembra collidere con l’attribuzione alla parte dell’obbligo di partecipare personalmente (o a mezzo di procuratore speciale differente dal difensore medesimo) ad ogni incontro di mediazione e con l’asserita perentorietà del termine di quindici giorni per l’introduzione della mediazione delegata; pare, infatti, che uno strumento di A.D.R. capace di offrire ai consociati soluzioni migliori di quelle esigibili dalla Giustizia possa implicare degli obblighi procedimentali soltanto se concretamente funzionali al raggiungimento dell’intesa conciliativa, escludendo, di converso, ogni aspirazione al formalismo o alla tipizzazione dei contegni endoprocedimentali.